“Tombe greche”

Un Montalbano inedito – ce lo passa a pezzo a pezzo Carlo Volpe 94/97…buona lettura!

 

 

-          Buonasera Commissario, permetta che mi presenti: sono il Tenente Vittorio Maria Lucchetti e da questa settimana comando il Nucleo Operativo Radiomobile della Compagnia Carabinieri di Montelusa nel cui territorio cade anche il suo Commissariato.

-          Tenente, lei al suo primo incarico è, vero?

-          Signorsì, dopo un breve periodo al Reggimento a Cavallo di Roma, sono stato assegnato a codesta compagnia e sono al tempo fiero e orgoglioso che l’Arma mi abbia destinato in un territorio così delicato a difendere lo Stato dai malfattori!

-          Mhmm – fece Montalbano con quella smorfia che gli pigliava quando aveva davanti il solito continentale che pensava di essere arrivato nel Far West a fare giustizia come gli sceriffi dei film di Sergio Leone – e allora faccia bene a stare arrasso dal mio ufficio. I suoi superiori l’avranno già informata che sono allergico all’acqua di colonia che passa la vostra amministrazione – disse scorbutico.

 

Stava per allontanarsi lasciando il Tenente Lucchetti ammammaluccuto e con la mano destra ancora penzolante nel vuoto, quando si accorse, da quell’albero di natale che era la divisa del giovane ufficiale, di una spilla. Taliò meglio sgriddrando gli occhi e, squasica squasica, stava per tornare sui suoi passi quando lo assalì un attacco di goliardica stronzaggine, quella che ogni tanto nisciva naturale guardando la faccia di Catarella.

-          Tenente  - proruppe simulando uno sguardo che ammenazzava timpesta –, lei ha fatto il classico o lo scientifico?

-          Il classico, signor Commissario. – Rispose il tenente, imparpagliato per la domanda che non si aspettava. Cosa poteva interessargli in che liceo avesse studiato?

Montalbano era lì lì per chiedergli qualcos’altro, ma ebbe la prontezza di non mandare a monte il babbìo che già pregustava.

-          Bene! Allora le chiederò una mano per un’inchiesta riservatissima su dei trafficanti di falsi reperti archeologici…

-          Sono a sua completa disposizione.

La voce squilla del Tenente Lucchetti aveva fatto tutt’uno con lo sbattere dei tacchi speronati. Pareva nisciuto da una di quelle stampe di ufficiali in divisa che si trovano sullo scalone d’onore del Comando Provinciale. Stivali sparluccicanti, pantaloni alla zuava, fascia azzurrina sotto al cinturone con bretella e sciabolone a braccetto. Cravatta di filo rigonfia in alto come lo spinnaker del “Moro di Venezia” e alamari d’argento appena cusuti. Il taglio della giacca era impeccabile, di ottima sartoria. “Gli costerà un’occhio della testa conzarsi in questo modo” pensava tra sè e sè Montalbano, ringraziando il fato che in Polizia i funzionari non avevano di certe fisime, anche se qualche suo collega della Stradale ultimamente si era fatto fare un cappello con un’aquilazza arraccamata che pareva il generale Cadorna.

-          Dovrebbe dare un’occhiata a delle lapidi dedicatorie. Capisca, potrei benissimo servirmi dell’aiuto di qualche amico professore di ginnasio, ma la delicatezza dell’affare impone la massima riservatezza. Lei il greco ancora se l’arricorda, giusto?

-          Modestamente, prendevo sempre 8 alle versioni e il mio professore, Terone, non era affatto largo di maniche. Le assicuro, ergo, il mio più completo ausilio – il tenente era passato dal registro burocratico dei verbali a quello di un parrineddro di prima missa –, da parte mia c’è tutta la volontà di applicare la recente circolare del Signor Ministro degli Interni sullo spirito di collaborazione che deve pervadere l’operato delle varie Forze di Polizia.

-          E allora ci vediamo nella mia casa di Marinella domani sera verso le nove.

-          Marinella?

-          Sissi, appena passata Vigata ci sono delle villette sulla spiaggia. Chieda al maresciallo Iovene, è napoletano, ma sta a Montelusa da trent’anni. Conosce la provincia meglio delle sue sacchette e le saprà spiegare dov’è casa mia.

 

Entrato in casa, stava ancora pensando a cosa avrebbe fatto trovare al tenentino il giorno dopo. Da dove gli era uscita sta babbariata del traffico di lapidi contraffatte? Dove l’andava a capitare un pezzo di pietra con qualche scritta in simil-greco-antico? Quello comunque aveva ammagliato come un pisci in uno sciabicone e questo lo rendeva allegro come uno scolaretto che ne ha appena combinata una alla supplente della maestra. Aveva abboccato a primo colpo e senza neanche la camiatina di richiamo.

 

Finito l’effetto narcotico della pensata, a un certo momento si sentì mancare l’aria,  aprì la finestra e guardò di lato. Il fumo della ciminiera della centrale elettrica andava verso l’Africa. No, non era lo scirocco la causa dei suoi patimenti. Il suo infallibile segnavento indicava il classicissimo grecale notturno, quello che i pescatori di Santulì chiamano “narisi” perché a Nord Est di quel porticciolo semi abusivo, che non compare neanche sul portolano, si trova il paese di Naro.

E allora che minnica poteva essere quel senso di asfissia che gli aveva preso tutto nsèmmula? Apre il frigorifero e comincia a santiare. Quella zorbata di ricevimento con tartine di finto caviale e spumante rigorosamente italiano gli avevano fatto perdere i mirluzzeddri in umido che Adelina, la sua fedele criàta, gli aveva preparato come ogni sera dopo aver pulito e rassettato quella babilonia che era casa sua. La fregatura era che adesso aveva la panza china e sarebbe stato un reato bell’e buono trangugiare il semplice e succulento piatto di pesce senza neanche poterselo gustare a doviri. Odiava tutte le occasioni ufficiali, odiava tutta quella pompa autoreferenziale. Li odiava dello stesso odio che aveva suo padre, partigiano sugli appennini, quando si avvicinava ogni anno il 25 aprile. Il pensiero di aver liberato l’Italia da nazifascisti e di averla consegnata in mano a certi politicanti di mestiere lo aveva sempre roso. Quasi si vergognava di dire in giro che aveva combattuto la Resistenza e di essere stato insignito del titolo di Cavaliere della Repubblica dal Presidente Saragat. Capo. Questo era il grado che si era guadagnato in tanti anni di onorata carriera nella Regia Marina prima, e nella Marina Militare Italiana poi. Capo Montalbano l’avevano chiamato i suoi marinai e Capo Montalbano avevano continuato a chiamarlo dopo la pensione il fruttivendolo, il macellaio, i vicini di casa. E sui necrologi incollati ai muri del paese aveva voluto solo quel titolo sotto il nome:

 

Oggi, munito dei conforti religiosi, si è spento il Signor:

 

MONTALBANO CALOGERO

Capo di prima classe in congedo della M.M.

 

Ne danno il triste annuncio i figli Salvo e Antonietta con il marito Gerlando, le nipoti Maria e Desirée, i parenti e gli amici tutti. I funerali si terranno nella chiesa della B.M.V. del Monte Carmelo domani alle 15,30. Dopo le esequie il feretro sarà trasportato nel cimitero cittadino e tumulato nella tomba di famiglia.

 

NON FIORI MA OPERE DI BENE

Vigata, 18 giugno 1993

 

 

 

Ancora si ricordava di quella cerimonia toccante. Dell’ammiraglio Sciangula, presidente della locale sezione dei Marinai d’Italia, che al termine dei funerali aveva voluto leggere con la voce rotta dai singhiozzi la Preghiera del Marinaio scritta da Fogazzaro:

 

“A Te, o grande eterno Iddio,

Signore del cielo e dell'abisso,

cui obbediscono i venti e le onde, noi,

uomini di mare e di guerra,Ufficiali e Marinai d'Italia,

da questa sacra nave armata della Patria leviamo i cuori.

 

…”

 

Gli erano rimaste scolpite in testa quelle parole. A lui che era dal matrimonio della sorella che non si prendeva la Comunione. E quella volta l’aveva fatto per non fare dispiacere alla mamma tanto devota. “Salvuzzo, la mamma, ma almeno quando si marita Antonietta, puoi fare lo sforzo di appresentarti in chiesa e prendere la cuminione. Nun si vitti mai che un testimonio se ne arresta assittato. Che avi a dire Patre Infantino? quello ti ha vattiato e tu ci fai pigliare sto dispiacere? Già gliene facesti prendere tanti quando al liceo ti mittisti a occupare la scuola e fare nfernu per le strate con quei libretti rossi in mano. Eritu tanto beddro quando eri nico e ci facevi di chierichietto a Patre Infantino, eri l’unico che sapeva addrumare l’incenso senza fare danno in sacristia. Amunì Salvuzzo, fallo pi to’ matri”

 

 

 

A un certo punto si riebbe. Ma come era andato a scoppare ai ricordi d’infanzia, alla madre, al funerale del padre? Ah, ecco! Grazie alle tartine fituse che gli avevano fatto passare il pititto e a quella fitinzia di spumante neoautarchico che gli ricordava la nuova pubblicità della FIAT. Ne potevano fare una uguale sul prosecco: “Merci, merci! Quando compri la sciampagna i francesi ringraziano.” …ma per cortesia!!!

Il nirbuso continuava ad acchianargli, ma non si dava paci su quale potesse essere la causa del sufficamento. Trangugiò quel po’ di acqua agghiazzata presa dal frigo e si rese conto che si bloccava all’altezza del cannarozzo. Mise la mano a tastiare e si accorse che aveva ancora la cravatta perfettamente stretta al collo. Santu di diavuluni. Era riuscito a tenere la cravatta tutta la sera e non se n’era manco addunato. Cosa di foddri. Ora se la poteva togliere e rimettere con cura nel cassetto col nodo ancora fatto. Se ne sarebbe parlato al prossimo 2 giugno di riprenderla.

-          Ah, le lapidi greche! Disse ad alta voce rimproverandosi poi di aver parlato un’altra volta da solo.

-          Pronto? Fazio?

-          …dottore lei è. Ma chi ore sono?

-          Non lo so e non me ne fotte. Fazio ascoltami, chi si occupa di marmi e pietre a Vigata?

-          Dottore, ma con gli arretrati dello stipendio, che si vuole comprare il cesso di granito?

-          Fazio, fai poco lo spiritoso, è una cosa importante.

Sapeva di star mentendo spudoratamente, ma fece in modo che Fazio, il suo braccio destro nelle indagini che proseguivano anche quando il Questore lo sollevava dall’incarico, non se ne accorgesse.

-          Allora, ci sono i fratelli Milano in via Monti Mario o Monti Vincenzo. A st’ura faccio tanticchia di cunfusione. Hanno grande smercio, ma le cose di fino non sono roba loro e trattano male i clienti. Poi c’è la ditta di quello un poco garruso, in via Po, ma anche lui, mi hanno detto, dopo essersi messo in casa quel nordafricano, adesso non è più affidabile come una volta. Altrimenti c’è quella  ditta nuova di via Roma, come si chiama? Calabrò, ecco! Ci ha fatto delle balate nuove mia cognata e si è trovata bene. Ma ci posso spiare a vossia a cosa ci serve un marmista a notta funnuta?

-          Mi serve uno che sappia scrivere bene sul marmo e sia abbastanza discreto.

-          Duttù, scusasse, ma cu murì?

-          Nessuno, Fazio. Non è morto nessuno. Mi serve per una cosa mia e non posso fare malafigura.

-          Allora se è per far scrivere qualcosa senza dari troppa cunfidenza può andare a colpo sicuro da quello che inteso “Liuni di mari”, avi presente? Quello che il figlio se n’è andato al Nord a lavorare. Lei comunque, dottore, mi sta cuntando la mezza missa.

-          E dici che è bravo a incidere ed anche riservato?

-          Dottore, di scrivere sapi scrivere tutto quello che ci pròino supra a un foglio. Pure lingue straniere, tanto non capisce quello che c’è scritto. Ha fatto lui le lapidi in arabo per quei poveri disgraziati che sono morti quando il loro barcone è affondato a cento metri da Capo Russello. Sulla riservatezza, a meno che non si tratta di vastasate, vi potete fidare.

-          Grazie Fazio. Buonanotte.

-          Ormai me la guastò. Ci vediamo domani in commissariato, dottore.

 

Aveva l’idea e adesso anche l’incisore. Ora doveva solamente spremere le meningi e ricordarsi un po’ delle lezioni di greco che aveva dovuto prendere per superare l’esame da esterno per la maturità classica quando, diciottenne e fresco di studi “scientifici”, si era amminchiato che dovesse fare l’archeologo per trovare il teatro greco di Montelusa e risolvere il grande mistero che attanaglia da secoli tutti gli studiosi di antichità. Dove sarà finito il teatro di Montelusa? Dove l’avevano costruito i greci? Perché di costruirlo, lo hanno costruito, questo è sicuro. Una città che Plutarco dice aver contato anche 200.000 abitanti, figurati se non aveva un tiatro. Ci hanno fatto addirittura due acropoli su due colline appaiate. Il teatro ci deve essere sicuramente, ammucciato da qualche parte o sotto le case del Rabato, il quartiere arabo.

La testa gli faceva avanti e narrè quella notte. Prima i ricordi di quand’era caruso, adesso i sogni di gloria della prima giovinezza. Novello Schlieman. Si vedeva a scavare e a buttare giù quelle quattro case abusive che politici, magistrati e prefetti, se non conniventi, almeno misteriosamente ciechi, avevano lasciato spuntare negli anni qua e là per la Valle dei Templi. Non proprio nella quantità che dicevano i giornali del Continente. I suoi concittadini si erano limitati a tirar sù qualche seconda casa nel posto dove i loro antenati di 2000 anni fa si godevano lo stesso mare e la stessa arietta. Ma i templi, quelli, non li aveva toccati nessuno e le foto che pubblicavano sui quotidiani di grido erano degli abili scatti col teleobiettivo in cui sembrava che i palazzi della città vera e propria si ergessero tra i capitelli dorici. Peccato che nella realtà tra i templi e la città c’erano tre chilometri di mandorli che in febbraio imbiancano dei loro fiori il declivi verso il mare. Quanto s’incaniava quando vedeva certe cose, ma intanto si sa. Anche a scrivere una littra di protesta, ti mettevano le scuse in una paginetta ammucciateddra che non legge nessuno e intanto loro lo scoop l’hanno fatto.

Niente. Il ciriveddro non ne voleva sapere di concentrarsi. Montalbano lasciò il lapisi e il foglio di carta e si susì per farsi una cafè con la napoletana. Livia, la sua eterna zita genovese, gli aveva regalato una di quelle macchine casalinghe che fanno l’espresso come al bar, ma lui non l’aveva mai usata. Quando sapeva che stava venendo da lui l’allordava con un poco di cafè per far sembrare che la usasse, ma in realtà non sapeva manco come funzionava. Livia si ci faciva il cafè, ma a lui non piaceva. Veniva troppo acquariuso, mentre la napoletana lo faceva bello strittu e forti che pure un cadavaro s’arrisbiglia.

Dalle persiane intanto cominciava a filtrare qualche splavido raggio di sole. Non aveva dormito tutta la nottata pensando a cosa avrebbe fatto incidere sul marmo per prendere solennemente per il culo il tenente Lucchetti.

Ma che la finisse di babbiare alla sua età e pinsasse alle cose serie, a mettere la testa a posto e a maritarisi con quella bella picciotta che il Signuruzzo solo sa come non lo aveva ancora lasciato.

Lo scanto di una finestra che si aprì di colpo gli fece cadere mezza tazzina sulla cammisa bianca che aveva ancora addosso dalla sera prima. Era cangiato il vento. Si stava per mettere un ponentino camurruso e lui ancora non aveva trovato che cosa far scrivere sulla lapide.

Pacenzia. Se non si allistiva non ci sarebbe stato tempo. Forse una natatina gli avrebbe schiarito le idee.

 

-          Dottori, dottori…

-          Che c’è Catarella, stamattina? Guarda ca mi susivu col pedi sbagliato

-          Dottori, ha tilefonato un carrabunere stamatina quando vossia non era ancora arrivato in ufficio.

-          E pirchì me lo cunti a mia?

-          Pirchì disse che voleva parlare con lei pirsonalmente di pirsona, ma io ci dissi che vossia non era ancora trasuto e ca lo potia attrovare chiù tardu a mità matinata, che sarebbi ora in questo mumento priciso, e sicuramenti sarebbe arrivato.

-          E allora quando ritelefona passamelo.

-          Scusassi dottori, il fatto è che lui ha detto che stava partenno per Lampidusa pirchì c’erano stati sbarchi di extraterrestri e lo stavano mandando per almeno una simana.

-          Catarella! Ma che minchia ci vanno a fare i marziani in quell’isola?

-          Nonsi dottori, non sono marziani. Quelli che sbarcano a Lampidusa non sono virdi come nei firm miricani, sono nivuri nivuri comu la pici e vengono dell’Africa.

-          Vabbè, ma si può sapiri a mia cosa me ne deve futtiri che un carabbunere è stato mandato a Lampedusa perché qualche barcone di extracomunitari è sbarcato? Ti facisti dire comu si chiamava il carabbunere?

-          Mi disse che si chiamava Catanazzo, parlava tutto strano, forastiero. Mi disse che era il Nullatenente Catanazzo e ca si scusava se stasira non poteva fare quella cosa per lei che sa solo vossia, ma che l’avevano mandato a vidiri cosa succidiva a Lampidusa.

 

Perfetto. Il tenente Lucchetti non sarebbe stato di ritorno presto e per la sua pinsata lui avrebbe avuto una simana abbunnanziusa di tempo per fare le cose per bene.

Senza dire nè ai nè bai chiamò Fazio che si presentò comu un razzo nel suo ufficio

-          Fazio.

-          Comandi, dottore.

-          Il dottor Augello se la fa ancora con la figlia del preside Lo Principe?

-          Che ne so io, dottore. Addumannassiccillu al dottore Augello. Io l’affari miei mi faccio.

 

 

Lo conosceva benissimo. Quando principiava così, Fazio voleva far capire che si sintiva offiso. Più che la domanda sull’ultima conquista del suo vice Mimì Augello, lo aveva fatto incaniare la telefonata della notte e, massime, la mancanza di particolari che il suo capo aveva voluto condividere con lui.

Montalbano lo sapeva, ma non poteva svelare al suo fido ispettore che lo aveva svegliato nel mezzo della notti per uno schiribizzo che gli era venuto in mente per, come dire, “accogliere” il tenente Lucchetti.

-          Vedi Fazio – principiò senza tanto essere convinto delle parole che ci niscivano dalla vucca -, ti ricordi il caso di quegli atti di vandalismo al camposanto l’anno scorso?

-          Sissi dottore. Archiviammo il caso perché ci parse il gesto di qualche picciottazzo che, in mancanza di chiffari e con qualche pinnuliddra di queste droghe sintetiche in corpo, era andato a sfogarsi le corna contro qualche lapide al cimitero.

-          Esatto. Escludemmo da subito la pista antisemita perché qui gli ultimi ebrei se ne fuirono nel 1492, quando c’erano gli Spagnoli. Poi percorremmo la pista satanica, ma anche lì arrivammo a nenti. Dopo ci firmammo. Del resto, dato il grande rispetto che da queste parti si porta ai morti, non pensammo ad altro che a qualche mriaco o uno di questi picciotti alluppiati che firriano per il paese senza lavoro.

Si assistimò meglio sulla seggia e poi riprese, guardando all’incrocio tra il soffitto e le due pareti di destra come a cercare una trinitaria ispirazione. Dopo una manciata di secondi, spiò:

-          Chi rifece le lapidi?

-          Non lo so, dottore. Ma chi impurtanza avi?….. ah… non mi dicisse che sta pensando quello che penso io?

-          Chi pensi Fazio? Vediamo…

-          Col permesso di vossia, avrei un mezzo pensiero da esporle.

Meno male che Fazio si era messo a fare il piccolo Sherlock Holmes. Montalbano si mise ad ascoltarlo spaparanzato sulla sua seggia commissariale che in quel momento principiava a diventare meno scomoda.

-          Se vossia pensa quello che penso io, le presunte profanazioni altro non sarebbero che un modo per fare ecchisinovo qualche lapiduzza e guadagnare quarche soldo. Se permettete un suggerimento, subordinatamente, cercherei di scoprire se le lapidi le rifece solo uno dei marmorari del paese e macari se le suddette lapidi sono solo di famiglie benestanti per le quali sarebbe una vrigogna avere la tomba di famiglia con i maduna a vista.

-          Bravo Fazio! Ti proporrò per la promozione a Vice Commissario!

-          Vossia sempre gana di babbiare ha. Poi ce lo dice lei al dottor Augello che gli ho fregato il posto? Ah, a proposito del dottore Augello, che voleva sapere da me sul suo conto?

 

Bastava poco per far ritornare Fazio nel migliore sbirro del Commissariato di Vigata. Bastava dargli tanticchia di coccio e poi era capace di fornire anche il numero preciso dei peli del didietro di Belzebù.

-          Volevo solo sapere se esce ancora con quella ragazza, la figlia del preside Lo Principe, non si laureò in lettere classiche proprio aguanno? Mi ricordo che il padre, tutto priato, mi portò i confetti rossi e la bomboniera.

-          Di uscire ancora, escono… e non solo – fece Fazio col sorrisino di chi la sa lunga -. Sulla laurea onestamente non ricordo in cosa si laureò di specifico, ma se vuole posso spiare a mia sorella che era sua compagna di scuola media e ancora si praticano. Se non ha altro da chiedermi mi accomoderei e mi metterei al lavoro. Prendo Galluzzo con me e vediamo di farle avere qualche indizio nel doppopranzo

 

Due uomini del suo Commissariato distratti per un’indagine completamente inutile, una nuttata appizzata a pinsare babbariate e un certo purtuso all’attaccatura dello stomaco. Alzò la cornetta e si sincerò che alla Trattoria San Calogero fossero arrivate le siccie.

Dopo aver idealmente immolato i bei mirluzzi sull’Altare della Patria, aveva uno spinno irrefrenabile di siccie arrustute.

-          Dottore carissimo, ci preparo anche un piatto di pasta col nero. S’assittasse che ci porto il vinello nuovo d’in campagna che piace a lei.

-          Salvo!

-          Mimì, che ci fai lì dietro ammucciato?

-          Ma niente. Ho visto passare dalla finestra a Michela e non volevo farmi vedere.

-          Susiti, dai, e non contare minchiate. Che è successo con Michela?

-          Ma niente Salvo, le solite cose. Aieri sira era nervosa che non ci ha preso all’esame per passare di ruolo alla scuola e si è sfogata con me. Io avevo i cabbasisi girati per i fatti miei e ci siamo sciarriati. E oggi non ho ancora gara di fare pace.

-          Ahi, Mimì Mimì, certe volte sei peggio di un addrevo. Assettati qua che ti devo chiedere una cortesia.

-          Di che si tratta Salvo?

-          Appena ti riappacifichi con Michela avrei bisogno di parlare con lei. Ho bisogno di una consulenza di greco antico.

-          Che è, non ti bastano più i romanzi e ti sei rimesso a leggere i classici in lingua originale?

-          Più o meno.

-          Dottore, eccole gli spaghetti al nivuro di siccia. Le siccie arrustute le vuole come al solito senza sale?

-          E con mezzo limone e un misurino d’oglio allato.

-          Salvo, ti lascio mangiare in santa pace. Mi vado a fare una passiata al molo che m’arripiglio tanticchia. Ci vediamo più tardi in ufficio.

Montalbano con la testa fice nzinga di apprezzare il gesto del suo secondo. Quando mangiava non voleva essere inquietato, nè tanto meno sopportava la presenza di un commensale che lo stesse a guardare mentre si calava avidamente una razione di pasta degna di un camallo genovese.

 

-          Pronto! Sì.. Montalbano sono, chi parla?… ah Michela… sì avrei… come dire… è una stupidata, non vorrei disturbarti… gentilissima…ci possiamo vedere per un caffè da Castiglione fra cinque minuti?

Michela l’aveva chiamato al cellulare di servizio. Il numero gliel’aveva sicuramente dato Mimì che l’aveva assicutata per riappacificarsi, cuntanno a Montalbano che andava a fare due passi al porto.

Fortuna per lei che l’aveva chiamato subito dopo l’ultimo saporito boccone.

-          Dottore Montalbano soddisfatto è?

-          Sei un artista tu, altro che cuoco!

 

-          Dottore eccomi, di cosa mi voleva parlare?

-          Innanzi tutto diamoci del tu.

-          Mi viene un poco difficile, lei è solo di qualche anno più giovane di mio padre.

Questa risposta l’aveva assintumato. E’ vero che gli anni correvano, ma dirglielo così a brucia pelo doppo mangiato gli faceva sempre un certo effetto.

 

Si lasciarono salutandosi cordialmente. Vai a capire che cosa Mimì aveva contato a quella ragazza per farla telefonare subito. Sul foglio di carta che stringeva in mano c’era il risultato dell’appuntamento: alcune lettere greche da far incidere su un pezzo di pietra o di travertino. Si avviò lentamente verso il commissariato, taliando di tanto in tanto quella paginetta spiegazzata. Poi la richiudeva e con una risatina si rimetteva a camminare. Si l’avissi visto qualcheduno senza canoscerlo, l’avrebbe sicuramente scangiato per uno di quei mischinazzi che girano per Vigata con la testa cotta dal sole.

 

Tuppiò con forza alla vecchia porta in legno. Tuppiò di nuovo e ancora silenzio. Quando stava per andarsene grapì un vicchiareddro che ci spiò cosa voleva.

-          Vossia è capace di scrivermi una lapide con delle lettere che non si capiscono?

Lo scoppio delle risa del vecchio fece subito capire a Montalbano la ragione per la quale i vigatesi lo avevano avevano ribattezzato “Liuni di mari”. La ngiuria non era zoologicamente calzante ma in siciliano non tutti gli animali hanno un nome, per cui si va spesso per affinità.

-          Voscienza non lo sapi ca io sono completamente arfabeta? Nun aiu scola e questo misteri l’ho imparato da mio patre quando ero nicareddro. Ma mai e dico mai nessuno si è lamentato del mio travaglio. Mai un errore di sbaglio a scriviri i nomi di qualche morto o su qualche targa che il sindaco appizza ncapo ai muri. Chi avi in manu? Dassimillu. E chi lingua eni chista?

-          Taliassi, lei la cosa che avi a fare è scolpire queste littre pare pare su un pesso vecchio di petra. Una qualsiasi va bene, anzi più ladia è e meglio è pir mia.

-          Si Voscenza è cuntenti così, ci posso fare stu servizio su una lastra di petra bianca rutta ca ho nel magazeno da una dicina d’annuzzi.

Montalbano si era già preparato tutte le risposte alle possibili domande sorte dalla curiosità per la strana richiesta. E invece il “leone marino” non se ne avia minimamente fottuto. Meglio così, pensò.

 

-          Fra una quattrina di iorna la trova pronta. Primisi primisi aio a finire la scritta per il nuovo momumento ai caduti ca la simana che trase c’è l’inaugurazione.

 

E’ vero! Se ne stava dimenticando. Da lì a otto giorni avrebbe dovuto rimettersi la cravatta e per giunta di matina. Il sindaco si era messo in testa di far costruire un nuovo monumento e l’inaugurazione era prevista il 10 giugno mattina. Si sarebbe voluto mettere in malattia al solo pensiero, ma intanto gli attoccava. Era previsto l’arrivo del Sottosegretario alla Difesa, che era del paese confinante. Le solite moine, i soliti discorsi che finivano sempre allo stesso modo. Già sentiva l’orticaria.

 

 

 

-          Nenti di nenti dottore.

-          Su cosa, Galluzzo?

-          Sulla storia delle lapidi e delle profanazioni. Con Fazio abbiamo chiesto in giro e abbiamo macari fattu un sopralluogo al campusanto, ma nulla sembra far pensare ad un disegno criminoso, seppur di bassa lega, sotto. Le lapidi ognuno se l’è rifatte dove gli piaceva e nessuno dice di aver subito pressioni.

-          Grazie Galluzzo, grazie. – fece con un gesto quasi liberatorio.

 

Si era rimesso di nuovo a pensare a sto binidittu scherzo da fare al tenente appena arrivato. Ma che stronzata. Non ne aveva fatti mai da quando stava in Polizia. Al corso per commissari erano tutti seri e compassati. Mai una battuta, figurarsi queste cose da caserma di najoni. Da dove gli era spuntato tutto questo disio di prendere bonariamente per i fondelli a Lucchetti? Sarà stata la facci di saputello che aveva, che lo faceva sembrare il capoclasse del libro “Cuore”, oppure quell’aria da salvatore della patria, da paladino della giustizia… “procomberò sol io!”

No, lui lo sapeva benissimo. Il suo istinto goliardico era rinato solo grazie ad un piccolo particolare per molti insignificante. Mezzo giro sulla sedia ed eccolo lì, sguardo fisso sulla parete di sinistra. Come l’ufficio di ogni funzionario o ufficiale di qualunque ordine e grado, anche Montalbano aveva su un muro della sua stanza la collezione di crest, piatti di ceramica e scudi vari. Al centro, ben in risalto, ce n’era uno. Il più vecchio di tutti e neanche tanto bello da vedere. Eccola la ragione della sua rinata voglia di goliardia. Pensava agli anni dell’università quando essere goliardi era di “destra”, era “borghese”. Lui e tutti gli altri, invece, perdevano le notte in interminabili riunioni di appoggio alla classe operaia, ad organizzare scioperi e manifestazioni. Sì, anche scontri con la polizia. Anche se a quelli lui non riusciva mai a prendere parte. Per taluni aveva un po’ del codardo, ma almeno era uno che dimostrava “impegno”. Guai a pensare a svagarsi, a godersi la gioventù. Gli scherzi, appunto, erano di destra.

Non si accorse neanche che era entrato Mimì Augello.

-          Oh! Salvo, che fai? Ti sei addrummisciuto?

-          No, Mimì, ma si può sapere pirchì sei trasuto senza manco bussare?

-          Salvo, era aperta e poi da quando in qua sei diventato così cerimonioso? Mi devo fare annunciare da Catarella la prossima volta?

-          No, niente Mimì, è che stanotte non ho dormito e sono tanticchia nirbuso.

-          Senti Salvo, ha appena chiamato il Capo di Gabinetto della Questura. Vuole un rapporto dettagliato sullo stato della sicurezza a Vigata. Per la cerimonia del 10 il Questore non vuole sorprese.

-          Ma che sorprese e sorprese? Mi hanno rotto le scatole con queste fisime del terrorismo. Ma si può sapere chi dovrebbe venire a Vigata a fare un attentato? Mimì, per cortesia, pensaci tu. Io mi vado a stendere un attimo a casa che non arraggiuno più.

-          Almeno mi dici perché tu e Michela siete così misteriosi su sta storia dei classici greci?

-          Niente Mimì, lo sai come sono. Ogni tanto mi fisso che devo leggere Omero dal greco e se non arrivo manco al primo punto mi annerbo.

 

Andando verso la macchina si accorse che gli operai stavano dando gli ultimi ritocchi alla grande ancora nera che ora campeggiava al centro della piazza di Vigata. Alla targa magnogreca e al suo tenente avrebbe pinsato domani.

 

 Per tornare a Marinella prese la strada di sopra. Quella che passa al Pero. Gli era venuto in testa di andare a salutare un suo caro amico, un dirigente del Comune di Montelusa da alcuni anni in pensione.

Si avvicina al citofono della villetta e subito i due pastori tedeschi cominciano ad abbaiare.

-          Chi è?

-          Montalbano, sono!

-          Pure io. Scupa!

Aveva sempre gana di babbiare il suo amico. Si erano conosciuti alcuni anni fa per un caso di quasi omonimia. Aveva da poco preso servizio a Vigata e si trovava al Municipio di Montelusa per una pratica. Dagli altoparlanti la signorina cominciò a dire che il dottor Montalbano era pregato di recarsi davanti all’ufficio del sindaco e così si era ritrovato insieme ad un altro signore dalla barba bianca fuori dalla porta chiusa. Incuriosito, attaccò bottone con il barbuto sforzandosi di parlare in perfetto italiano, cosa che quando aveva prescia non gli arrinisciva naturalissima:

Che cosa singolare, non trova? Metto piede per la prima volta in Comune e già mi tocca il rimprovero del sindaco. - Gli niscì dalla vucca non sapendo che cosa dire.

-          Scusi? – fa il distinto barbuto

-          Sì, non ha sentito gli alto parlanti? Cercavano il dottor Montalbano e… eccomi qui

-          Ma guardi che il dottor Montalbano che cercano sono io, sono un dirigente comunale.

-          Ah, che stupido, è un qui pro quo. Piacere Salvo Montalbano, sono il nuovo Commissario di Pubblica Sicurezza di Vigata

-          Ah, piacere commissario, sa che anch’io abito a Vigata anche se lavoro qui a Montelusa? Allora spero di vederla presto. Avrei il piacere che fosse ospite a casa mia una di queste sere, se i suoi impegni di lavoro con i miei, con i nostri compaesani glielo permetteranno.

-          La ringrazio. Farò di tutto per esserci, vigatesi permettendo.

-          La saluto, il sindaco si è liberato e devo entrare.  La cercherò in commissariato, va bene?

-          I miei rispetti.

 

 

 

 

-          Salvo a che devo la tua visita

I due Montalbani di Vigata, dopo sane scorpacciate di pesce ormai si davano amichevolmente del tu, anche se il commissario non si prendeva mai eccessiva confidenza. La differenza d’età lo portava a nutrire sempre un certo rispetto.

-          Ma niente Japichì, passavo di qua e mi sono ricordato che era da una vita che non ci vedevamo. Per una cosa o per un’altra alla fine il lavoro ti risucchia e passano i misi senza che te ne adduni.

-          Ti capisco, ti capisco. Vedo sempre le tue operazioni su “Televigata”, anche se non capisco mai perché fai sempre parlare il tuo vice alle conferenze stampa.

-          Lo sai che sono timido. Mi affrunto a parlare in pubblico e l’obiettivo della telecamera mi mette suggizione.

-          Aspetta, aspetta… te lo pigli un cafè? Ti devo far vedere le foto.

-          Quali foto?

-          Quelle che abbiamo fatto a febbraio a Montelusa e a Ragona

-          Le hai sviluppate? Porta, porta. Belle! Taliali. Si saranno fatti una barba più lunga della tua, quei picciutteddri. Tu e Michele gli avete fatto fare un giro di pazzi: la Valle dei Templi, il tiatro Regina Margherita, il saluto del sindaco dopo una giornata addritta e macari la visita ai Maccalubi a Ragona.

-          Amunì Salvo, picciotti sono, no vecchi come a mia. Alla loro età uno stambecco ero, e a quei tempi c’era la fame. Era ancora il dopoguerra. E poi, sai, sono anni che manco da Napoli. Vederli qui, tutti impettiti mi ha tolto vent’anni.  Amunì, dimmi la vera ragione per cui sei venuto a tambasiare fino a casa mia qui al Pero.

-          Eh… beh… in realtà ti volevo mettere a parte di una cosuccia che non posso contare in Commissariato asennò mi pigliano per scemo. Perciò… è arrivato a Montelusa un nuovo tenente dei Carabinieri, un bravo picciotto sia ben chiaro, ma con quell’arietta da saputello che mi ha fatto venire lo spinno di fargli uno scherzo innocuo, una cosa innocente, di benvenuto.

Mentre Montalbano il Commissario contava con gli occhi che ci friivano di ebbra contentezza, Montalbano il barbuto lo ascoltava col mezzo sorrisino del padre che sente dal figlio l’ultima bravata con quel misto di compiacenza e di attenzione genitoriale. Un paio di particolari avevano destato la sua attenzione, ma si era trattenuto dal mettere in guardia il Commissario. In questo modo avrebbe potuto partecipare macari lui indirettamente allo scherzo.

-          Salvo, mi raccomando, fammi sapere come va a finire.

-          Ci mancasse altro. Ti saluto, scappo. Ah, ci vediamo in piazza alla festa della Marina.

-          Gnà certo, almeno passo una matinata tanticchia diversa dal solito. Ciao Salvuzzo.

 

Prima di tornare a casa decise di fare un salto dalle parti del cimitero a vedere se Liuni di Mari aveva finito il suo capolavoro.

-          Dottore, un travagliu di mastro vinni. Non ci capii niente di quelle littre tunne tunne con tante virgole in capu, ma vennero pare pare al pizzino che vossia mi aveva lasciato.

Il pizzino! Anche Montalbano si era messo a comunicare con fogliettini di carta adesso? Nell’era delle più avanzate tecnologie di trasmissione dei messaggi, quella parola “pizzino” gli ricordava la furbizia e la prudenza di certe sorti di delinquenti che si prendevano beffa di intercettazioni satellitari, cimici e computer comunicando i loro ordini  ed i loro desiderata con grafie tentennanti su un pezzo di quaderno di terza elementare o su un lembo della carta marroncina del pane.

-          Facissimi taliare. Bene, quanto ci devo dare?

-          La casa offre, dottore. Più che un travaglio fu un divirtimento. Quanno una cosa è nuova io ci piglio passione e non talio nè orologi nè niente. E poi, con la balata del munumento ai caduti la mia misata me la feci.

 

Dopo un’ultima taliata, Montalbano incartò quella lastra di marmo in un po’ di carta di giornale e se ripartì per Marinella friscando in macchina come un acidduzzo appena affaccia il sole a livante. Ancora non si era preparato lo scherzo nei dettagli, ma la sua presunzione di essere un attore consumato lo faceva sentire abbastanza sicuro. Avrebbe recitato a soggetto, come sempre.

 

Prima di infossonarla sotto un po’ di terra gli diede un’ultima guardata compiaciuta. A quella balateddra mancava solo un po’ di vecchio addosso e poi era pronta per la messa in scena.

 

 

 

 

Durante la Messa il nuovo parrino si era preso un colpo di scanto quando, durante una benedizione, l’ufficiale del picchetto armato aveva comandato la resa degli onori e la battuta degli scarponi aveva fatto rintronare tutta la chiesa. Poi alla fine un vecchio marinaio aveva letto la preghiera di Fogazzaro e dopo il “Benedici” finale Montalbano si era ritrovato una lacrima all’altezza delle labbra.

Uscita dalla Matrice, la fanfara dei bersaglieri venuta da Palermo aveva attaccato un paio di marcette. Festa grande oggi. Il sinnaco in fascia tricolore che distribuiva strette di mano e vasate a tutti quelli che gli arrivavano a tiro. Il sottosegretario non era da meno alternando battute nel più puro idioma locale a brevi commenti con l’accento similromanesco che prendono tutti i politici una volta che si sentono arrivati. Il questore era nervosello. Ogni minuto cercava gli occhi di Montalbano per sincerarsi che tutto fosse a posto. Il rapporto preventivo arrivato in Questura non l’aveva soddisfatto. Era una bella spremuta di ovvietà scritte nel classico gergo da verbale questurino. Montalbano lo aveva fatto redigere a Fazio dandogli completa carta bianca. Non l’aveva manco voluto rileggere. Sapeva che Lattes, il capo di gabinetto, aveva un debole per quello stile burocratico e l’avrebbe portato di filato sul tavolo del Signor Questore col sorriso stampato in facci. A mano manca del palco parato più di uno scecco a festa spiccava la figura del Prefetto De Bellis, astigiano tutto d’un pezzo, l’incarnazione dell’istituto prefettizio. Era visibilmente teso e impacciato dato che non gli avevano riservato il posto d’onore. Dopo le ultime dichiarazioni di una cospicua parte di deputati regionali che reclamavano l’applicazione dello Statuto autonomistico rimasto nel cascione da sessant’anni, tirava brutta aria per i prefetti. Tre presidenti di provincia, che si erano convertiti all’improvviso a questa ondata di milazzismo, avevano mandato lo sfratto alle rispettive prefetture adducendo le ragioni più disparate, pure quella che con le nuove leggi sulla sicurezza del posto di lavoro non c’erano abbastanza cessi per i loro dipendenti. Mischino. Lui era pure piemontese, l’apoteosi dell’occupante sabaudo!. Quante gliene avevano dette quegli stessi politicanti che fino all’altro ieri non sapevano manco il significato della parola autonomia. Mischino, a forza di ripassarsi le dita sui suoi mustaccioni pareva se li stesse scippando uno per uno.

Da una via laterale stavano cominciando ad entrare i plotoni armati. Cosa di affruntarsi! Non c’era un poliziotto che andasse al tempo della banda. Meno male che non c’era nessuno dei suoi, ma era tutto personale della questura di Montelusa. Almeno questa volta una piccola soddisfazione se la poteva prendere. Ancora gli abbrusciava l’ultimo posto al torneo di pallone tra le forze dell’ordine. Alla prima partita vinta contro la Forestale, il Questore si era subito preso il merito. Non appena Montalbano aveva dovuto sostituire con Catarella il portiere titolare, infortunato a seguito di una pidata arrivatagli da quel pecoraro che giocava all’attacco, avevano cominciato a perdere vrigognosamente. Da quel momento era stato detto a tutti che la squadra della Polizia non era quella della Questura, ma quella del Commissariato di Vigata. Amici e guardati!

 

Il tenente Lucchetti era in testa al reparto dei Carabinieri. Feluca con giummo e divisa ottocentesca con parapirita. Tra lui e quei poveri marinai in tuta da sommozzatori era difficile decidere chi sudasse di più. Con la ricetrasmittente in mano, Montalbano passava dall’ombra di un platano a quella della tenda di un bar dove i cristiani gustavano mollemente una granita, mentre si succedevano discorsi e presentat’arm, applausi e squilli di tromba. L’inno di Mameli cantato a squarciagola dai picciliddri delle scuole elementari nei loro grembiulini bianchi e azzurri e fiocco bianco, rosso e verde per l’occasione. Il telo che non scendeva a scoprire quell’ammasso di ancore, oblò, cannoni e scialuppe che era il monumento. Lo Zu Nardo, ottacinquenne figura mitologica dell’associazione dei marinai, che con una canna riesce ad avere ragione del filo incagliato in uno spigolo. Boato di applausi e ovazioni dalla “cittadinanza intervenuta”.

Il commissario non ne poteva più. Non vedeva l’ora che tutti questi forestieri lasciassero in pace la “sua” Vigata e se ne andassero a stracatafuttirisilla arrasso per almeno un altro anno.

Purtroppo ancora c’era la bicchierata in Comune alla quale non poteva assolutamente mancare.

-          Commissario!

-          Ah Tenente, si è arrossicato ben bene a Lampedusa. E’ bello colorito che se la vede qualche pisciaro del paese la mette nella cassetta della langoste.

-          E sì, fa veramente caldo laggiù, è proprio in Africa Lampedusa… Piuttosto, come vanno le sue indagini riservate – fece quello in un tono che non si capiva se era da sfottò o da cosa seria.

-          Se lei se ne va in villeggiatura al mare a recuperare barconi di povirazzi che vagano per il Mediterraneo si avanza di poco! Ci vogliamo vedere stasera da me? Ho del materiale da farle visionare.

-          D’accordo Signor Commissario, magari prima di tornare a Montelusa mi faccio spiegare dov’è casa sua.

-          A stasera allora e mi raccomando: acqua in bocca!

-          Comandi.

 

I salatini gli avevano fatto passare come al solito il pititto. Con le mani incrociate dietro la nuca se ne stava a guardare la parete di crest e scudetti vari ridacchiando un po’ sui complimenti del questore, “A malincuore, Montalbano, a malincuore, devo complimentarmi con lei per l’ottima riuscita del servizio di sicurezza”. Che minchia voleva dire “a malincuore”? Boh. Non aveva certo in mente di farlo promuovere e spostare da qualche altra parte? Promoveatur ut amoveatur…

 

Qualcuno stava tuppiando alla porta. E come al solito era Catarella che con i suoi modi delicati lo aveva fatto arrisantare dalla seggia facendo finire a terra il bicchierino di cafè che il picciotto del bar gli aveva portato.

-          Dottori, dottori!

-          Che c’è Catarella? Talè che tagaria mi hai fatto fare in terra!

-          Dottori, c’è un certo signori che ci vuole parlare a lei pirsonalmenti. Dice che è cosa che ci può interessare.

-          Ti sei fatto dire chi è?

-          Dottori, col suo nome di vattìo non lo canosce manco sua mogliere. Lo chiamano tutti con la stissa ngiuria intifica che avia suo patre, suo nanno e suo catananno. E’ il nome di un armalo marino.

-          Fallo trasere, ho capito chi è.

 

-          Duttù, m’ave a scusare se la distrubbo, ma propria aieri mentre stavo arrizzittanno il magazzeno attruvavo una para di balate vecchie che mi avia purtato me jènniro una cinchina d’anni arrè. A prima taliata li stava gittanno, poi, siccome erano scritti strani pinzavo a vossia e li sarbavo. Quanno vole, vene nella mia putìa e ce le faccio vedere, avanti che qualcuno se le vuole accattare per appizzarle a casa o in qualche villino.

 

-          Non mancherò. E grazie della cortesia.

Dopo avergli stretto la mano, lo stava riaccompagnando alla porta quando si ricordò della cerimonia della mattina.

-          Sto addiventando vecchio, disse il commissario, mi stavo scordando di farle i complimenti per la targa del monumento ai caduti. Veramente un’opera d’arte.

-          Grazie duttù. Vitti che bella faccia fici l’onorevole? Mi prumise puro che deve fare avvicinare a mio figlio a casa. Una volta c’era il Banco e un pusticeddro non si negava a nessuno. Ora è un poco chiù trubbola la cosa, ma siamo nella mani di San Calò e di qualche onorevole di buon cuore.

Non sarebbe mai cambiato niente! Ancora a far anticamera per un posticino fisso vicino a mammà. Macari quel picciotto in continente ci sta benissimo e suo padre lo vuole per forza sotto casa…

 

 

 

 

Nel frigo c’era un’insalatera piena di faggiolina, cipolla squadata e patate. Sale, pepe e un filo d’olio del Belice e il Nirvana sarebbe stato raggiunto. Adelina gli aveva preparato il piatto estivo che più lo metteva in armonia con il creato dopo la zuppa di cucuzzeddra e tenerume.

Si immaginava quella brava donna a spuntare ogni singolo faggiolino sopra e sotto e togliere il “filo” e man mano buttare a mollo nella pentola. La stessa immagine della sua bisnonna, assettata sotto il pergolato a mondare faggiolina per figli, nipoti e pronipoti allegramente sguazzanti fra i cavalloni del mare tutta la mattinata.

Sì, ma ora il filo nella faggiolina non c’era più. Solo qualche viddrano aveva ancora quella “antica”. Anche le catananne di ora si erano convertite ai fagiolini moderni, se non addirittura a quelli in scatola che arrivavano da non si sa dove. Da Israele, dal Sud Africa, dalla Spagna, dalla Grecia… la Grecia, diavolo, doveva disseppellire la lapide prima che arrivasse Lucchetti. Il resto della fagiolina poteva aspettare qualche minuto.

Ritornato a tavola accese Tele Vigata. Il servizio sull’inaugurazione della mattina era una sviolinata al sindaco, al sottosegretario e alle autorità tutte che avevano attenzionato, sì! attenzionato, verbo totalmente inesistente in tutti i vocabolari, ma che piaceva a tutti quei venditori di fumo che si spacciavano per amministratori della cosa pubblica a Montelusa e dintorni.

Decise che era meglio ritornare alle meditazioni sulla selezione dei fagiolini, ma mai senza prima dare uno sguardo al notiziario di Retelibera, dove il suo amico Nicolò Zito parlava degli ultimi sbarchi di immigrati e lamentava la cattiva pubblicità che le reti nazionali facevano al turismo della provincia.

Non ebbe manco il tempo di godersi un po’ la frescura del mare dopo aver messo la ciotola nel lavello quando sentì una macchina frenare in prossimità del cancello di casa sua. Raprì la porta prima ancora che qualcuno suonasse al campanello e si addunò che, a meno che il tenente si fosse messo la parrucca bionda, quella era Livia, la sua storica fidanzata di Boccadasse.

-          Ciao Salvo! Cos’è sembra che tu abbia visto un fantasma… dai, vieni a darmi una mano. Starò un paio di settimane e ho portato il necessario.

Che sul concetto di necessario e di superfluo avessero idee divergenti, se non addirittura opposte, era evidente. Montalbano decise di far finta di niente e in pantaloncini e maglietta prese le valigie che il tassista aveva adagiato sul marciapiede.

-          Ciao amore, non sei contento di vedermi? Dammi un bacio, sù!

Livia era particolarmente frizzante. L’idea di stare a due passi dal mare africano nelle due settimane più belle della stagione la entusiasmava. Un po’ meno entusiasta era il commissario. Il pensiero che per due settimane non avrebbe rivisto la triglie e i merluzzi di Adelina, la criata, lo metteva di cattivo umore. Le due donne non si sopportavano reciprocamente. Adelina non metteva per niente piede in casa del commissario quando Livia era a Vigata. E a Livia non andava affatto a genio che un’altra donna si aggirasse nel suo nido d’amore, fosse solo per mettere un po’ d’ordine, quando lei era l’assoluta regina della casa.

-          Come fu il viaggio?

-          Cosa t’interessa, vieni, prendimi, ho voglia di riempirti di baci e di coccole fino a domani mattina, Salvo. Morivo dalla voglia di vederti. Ogni giorno i tg fanno vedere questo mare e io, a Boccadasse, a pensare a te…

“Drinnn”

-          Salvo, chi suona a quest’ora? Chi ricevi alle 9 di sera in casa?

Tra lo stanco e l’imparpagliato provò a spiccicare due parole, ma non ci riuscì. Livia era diventata d’un tratto una furia. Faceva come una maria.

-          Livia, sarà il tenente Lucchetti dei carabinieri. E’ venuto per un’indagine che stiamo seguendo in comune

-          Ah, sì? allora digli di venire domani in ufficio. Adesso tu non sei in servizio. Hai capito?

-          Mi pare maladucato. Aspetta un attimo. Lo saluto, te lo presento e poi gli dico di passare con calma domani in commissariato.

Saranno stati i modi gentili del tenente, il baciamano o il fatto che entrambi erano nordici. Livia e Lucchetti principiarono a discorrere e parevano ignorare totalmente Montalbano.

-          Tenente, per quella cosa facciamo un altro giorno. La chiamo quando salgo a Montelusa.

-          Ma no, Salvo, scusa. Il povero tenente è venuto apposta fino a Marinella e tu adesso lo rimandi a casa? Vi preparo un tè o un caffè mentre voi parlate.

Era ammammaluccuto. Montalbano non sapeva più che pesci prendere. Un minuto prima Livia era ostile a qualunque essere vivente fosse pronto ad entrare in casa e un minuto dopo si metteva pure a fare la dolce padrona di casa. Proprio vero che chi scecchi caccia e femmine crede lustro di Paradiso non vede.

-          Ecco qui, tenente. Questa è una lapide di cui sono riuscito a venire in possesso grazie ai miei contatti nell’ambiente dei ricettatori. Qui qualcuno commercia in beni che dovrebbero fare bella mostra di sè nei musei pubblici e non nei caveau privati di banche svizzere.

Lucchetti afferrò con mani sicure la lastra, la rigirò, la guardò bene. Alzò gli occhi verso Montalbano che lo osservava fingendo distacco. Riguardò ancora poggiando i polpastrelli sulle lettere incise e poi proruppe:

-          Commissario, lei è proprio sicuro che si tratti di qualcosa di autentico?

Vuoi vedere che quel figlio di buona donna di un tenente si era accorto che quella lapide aveva visto lo scalpello per la prima volta solo tre giorni prima? E ora? Cosa suggeriva il copione del suo scherzo? Fece una pausa sorseggiando il caffé bollente appena portato da Livia facendo schioccare la lingua un paio di volte.

-          Mi esponga quali sono i suoi dubbi  - fece il commissario cercando di non scoprire troppe carte.

-          Veda commissario, per quel po’ di epigrafia che conosco, questa lapide mi sembra totalmente falsa. – cominciò a ragionare Lucchetti – Se insomma fosse una lapide di età classica mi aspetterei di vedere delle belle lettere ben incise, armoniche, chiare. Se fosse solo di un paio di secoli prima di Cristo me la immaginerei con delle lettere un po’ più ricamate di gusto ellenistico, oppure totalmente squadrate fino a rappresentare la omicron con un quadrato al posto di un tondo, come in qualche epigrafe del primo o secondo secolo d.C. Mi spiego?

-          Mmh – cominciò Montalbano non sapendo su quale specchio appiccicare – mi lasci pensare… lei sembra escludere totalmente che si tratti di un’epigrafe che sia a cavallo tra il V sec. a.C. e il II d.C., ma mi sembra che tralasci l’età preclassica. Quella in cui Montelusa era stata appena fondata da coloni rodio-cretesi. Si potrebbe trattare di una scrittura del VI secolo a.C. o lei ravvisa che si sia qualche termine o qualche forma verbale che a quel tempo non si usava ancora?

Nonostante Lucchetti fosse un osso duro, il ciriveddro di Montalbano caminava ancora. Scacco! Aveva pensato tra sè e sè. Vediamo ora se quella spilla che aveva sulla divisa il tenente se l’era meritata veramente.

Livia eri lì ad ascoltare queste dotte disquisizioni come assorta. Le valigie erano rimaste all’ingresso. Ci sarebbe stato tempo domani per sistemarle. Era sparita anche ogni voglia di chiudersi in cammara da letto fino all’alba. Seguiva con lo sguardo i ragionamenti dell’uno e dell’altro buttando ogni tanto una taliata su quella successione di alfa beta e gamma incise sulla pietra.

-          Guardi Commissario – il tenente Lucchetti aveva assunto un tono più deciso, come quello di chi ha la partita in pugno e vuole cercare di spiegare all’avversario quali mosse lo hanno allontanato dalla vittoria che oramai gli sta porgendo la corona d’alloro – se proprio vogliamo dirla tutta quell’idea l’avevo scartata a priori per un’altra ragione. Come vede, al di là del significato dello scritto o delle coniugazioni più o meno arcaiche, qui sono chiaramente visibili sia delle “csi”, sia dei “chi” che, per quanto io ne sappia non erano ancora stati adottati e non comparivano affatto nei cosiddetti alfabeti “verdi”, ovverosia quelli adottati a Creta e dintorni e quindi nelle colonie fondate dai cretesi in Magna Grecia.

-          Ma…

-          Aspetti dottore, – Lucchetti aveva anche interrotto il commissario. Adesso che era di mano nel gioco, voleva buttare l’ultimo carrico da undici per assuntumare completamente ogni velleità archeologica del povero Montalbano. – le ragioni che le ho testé esposto – riprendeva  a parlare come un libro scritto – sono solo necessarie per poter affermare che non si tratta di una lapide di importanza archeologica, ma non sono ancora sufficienti a chiudere il cerchio. In realtà basta solo una considerazione per capire che si tratta di un finto reperto, o almeno di una cosa di poco pregio. La lapide è incisa in lettere minuscole. Belle, ma minuscole. Quelle che si trovano sui libri di scuola e sui vocabolari, ma mai sulle lapidi. Questo genere di scrittura cominciò a svilupparsi molto tardi e i primi corposi documenti scritti tutti in minuscolo risalgono al medioevo. Fino al 700-800 d.C. si scriveva, anche su papiro e pergamena, con lettere maiuscole, spesso senza neanche separare una parola dall’altra. Certo qualcosa di precedente si trova già in lettere minuscole, ma che io sappia nulla in supporto lapideo. Se tutto il resto del materiale che questi presunti malviventi vendono è di siffatto genere, sarebbe meglio derubricare l’accusa da traffico di reperti archeologici in semplice truffa.

 

Livia aveva addirittura applaudito alla fine del crescendo. Montalbano pareva il vecchio leone battuto in combattimento da un giovane del branco che vuole togliergli il posto. Se il vecchio alfabeto greco di Montelusa era verde, la facci del commissario era di un nivuro che in confronto San Calò l’avrebbero ricoverato perché pariva troppo pallido. Vastunata pisanti all’orgoglio del commissario. La cosa era partita per pigliare un poco per il culo il tenente facendogli credere un traffico di vasi e pietre scritte e invece questo aveva fatto un ragionamento che, alla fine della sonata, prendeva Montalbano per solenne ignorante di antichità nonostante i decenni passati all’ombra dei templi e le decine di libri letti sull’argomento.